Mel Gibson, con il suo film del 1993 L’uomo senza volto, ha portato sul grande schermo una storia apparentemente semplice ma carica di significato. Pur essendo tratto dall’omonimo romanzo di Isabelle Holland, The Man Without a Face, il film non è basato su eventi reali. Eppure, ciò non significa che non abbia una base di verità, poiché incarna perfettamente molti dei pregiudizi e stereotipi tipici degli anni Sessanta. Ecco perché, pur essendo una finzione, racconta comunque una storia “vera”. Ma andiamo per gradi e scopriamo perché.
Il film segue la storia di Justin McLeod (interpretato da Mel Gibson), un uomo dal volto sfigurato e dal passato oscuro, che vive in isolamento. La sua vita cambia quando incontra Chuck Nordstadt, un ragazzo con il sogno di entrare in una prestigiosa accademia militare. Justin diventa il mentore del giovane Chuck, e insieme i due costruiscono un legame che va oltre la semplice relazione maestro-allievo.
Quando il film uscì, nel 1993, ricevette recensioni miste, ma molti critici apprezzarono la delicatezza con cui Gibson trattò i temi della discriminazione e della redenzione. Tuttavia, c’era anche chi lo criticava per aver evitato le implicazioni più controverse presenti nel romanzo originale di Holland. Eh sì, perché il libro è molto più audace.
La critica e il romanzo di Isabelle Holland: il messaggio dietro la storia
Isabelle Holland, autrice dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1972, era famosa per esplorare temi complessi e controversi nelle sue opere. Nata a Basilea, in Svizzera, e cresciuta negli Stati Uniti, Holland ha dedicato gran parte della sua carriera a raccontare storie di personaggi emarginati e in cerca di riscatto. L’uomo senza volto non fa eccezione. Nel libro, l’autrice mette in scena un profondo rapporto tra un insegnante sfigurato e un ragazzo in cerca di un padre. Tuttavia, mentre il film ha scelto di alleggerire e sfumare le sfaccettature più complesse di questo legame, il romanzo non si fa problemi a esplorare la natura controversa della relazione tra i due.
Ma perché tutto questo parlare di verità in una storia che è palesemente inventata? Perché, anche se il personaggio di Justin McLeod non è mai esistito, quello che rappresenta è molto reale.
Gli anni Sessanta, un periodo che molti ricordano per la rivoluzione culturale e i cambiamenti sociali, erano anche pieni di stereotipi e discriminazioni. Gli uomini che presentavano qualsiasi forma di “diversità” o difetto fisico erano spesso visti con sospetto o disprezzo. L’uomo sfigurato, che vive ai margini della società, incarna perfettamente questo aspetto oscuro degli anni Sessanta. Non c’è bisogno che Justin McLeod sia realmente esistito per capire che la sua figura è simbolica di tanti altri che, in quel periodo, erano isolati o etichettati come “diversi”.
Isabelle Holland ha quindi voluto mostrare come la società dell’epoca fosse pronta a giudicare e ad emarginare chi non si conformava ai suoi standard. Anche la trama del film ci porta in questo contesto, facendo emergere la paura e l’ignoranza che spesso circondavano chi aveva un passato difficile o un aspetto fisico non conforme alle aspettative sociali.
Mel Gibson e il tocco “morbido” del film
Quando Mel Gibson ha deciso di adattare il romanzo per il grande schermo, ha scelto di attenuare alcuni aspetti più controversi del libro. La sua versione si concentra maggiormente sulla redenzione e sul potere dell’amicizia, evitando di approfondire troppo la natura del legame tra Justin e Chuck, che nel romanzo è trattata con sfumature più ambigue.
Questa scelta può essere interpretata in diversi modi. Da una parte, Gibson ha cercato di rendere il film accessibile a un pubblico più vasto, senza rischiare polemiche. Dall’altra, si potrebbe dire che abbia perso l’occasione di esplorare più a fondo le dinamiche sociali e psicologiche di un’epoca in cui la diversità era vista come una minaccia. Sta di fatto che, nonostante queste modifiche, il film riesce comunque a trasmettere un messaggio potente: non giudicare dalle apparenze e cerca di comprendere l’altro, anche se è diverso da te.
Anche se il film non racconta una storia vera, il suo messaggio rimane attuale. Oggi, come allora, ci sono persone che vengono emarginate per il loro aspetto o per le loro scelte di vita. Justin McLeod rappresenta tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, si trovano ai margini della società. E il film ci ricorda che dietro ogni volto c’è una storia e un essere umano che merita di essere ascoltato.
Quindi, possiamo dire che L’uomo senza volto è una vera storia? La risposta, in un certo senso, è sì. Anche se non si basa su fatti realmente accaduti, incarna una verità più grande, quella dei pregiudizi e delle ingiustizie che ancora oggi colpiscono chi è visto come diverso. E, come spesso accade, le storie che raccontano verità universali sono quelle che restano, anche se sono solo finzione.